Un popolo poco conosciuto, indomito e fiero, che per decenni ha saputo resistere all'avanzata romana spostandosi e arroccandosi sugli appennini. In perfetta simbiosi con la natura ha lasciato dietro di sé tracce che ancora oggi incuriosiscono appassionati e storici. Approfondisce il tema, in un saggio contenuto nel libro "Pietro da Talada. Un Pittore del Quattrocento in Garfagnana", la scrittrice Normanna Albertini.
Le acque e un solo antico popolo a cavallo del crinale
di Normanna Albertini
Di essi Plinio[i] dice che “utilizzavano le sorgenti di acque calde e le annoveravano come divinità”, segno di un sentimento religioso legata alla natura, ma erano considerati anche una stirpe musicale (che questa caratteristica ci sia stata tramandata e sia rimasta nella tradizione dei maggi?) e si dice che in battaglia una parte fosse impegnata a cantare[ii]. Sono gli antichi abitanti del crinale, i Liguri, l’unico popolo che i Romani furono costretti a deportare in massa per riuscire a piegarli definitivamente. Le loro consuetudini e le loro attività, prima della colonizzazione romana, sono stati narrati da storici come Tito Livio, ma è comunque lo “sguardo” del vincitore sullo sconfitto, quindi non sempre imparziale. Tito Livio racconta di una stirpe fiera, rude e combattiva, che non era interessata alla guerra di conquista, ma che amava vivere in sedi stabili. Vivevano in oppida e castella, (i castellari), tenevano conciliabula in apposite piazze e in campi di riunione,[iii] dimoravano in vici o viculi presso sorgenti[iv]. Non conoscevano la proprietà privata[v] e, probabilmente, nei nuclei familiari esisteva una tendenza al matriarcato; le loro donne vengono descritte come forti e muscolose, dai fisici magri e asciutti, resistenti alla fatica come gli uomini. Dal punto di vista religioso, adoravano le vette delle montagne, le piante (il faggio) e, più di ogni altra cosa, le sorgenti.[vi] Le foreste sacre, i boschi sacri, i Luci erano sedi di cerimonie in relazione a molteplici eventi naturali. Furono tre le campagne romane contro i Liguri e, se si guardano i numeri dei morti, si può tranquillamente dire che si trattò di un vero e proprio genocidio, a cui venne aggiunto l’orrore della deportazione:
Nella primavera del 180 a.C. due di questi eserciti comandati dai proconsoli Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Panfilo marciano contro gli Apuani con l’ordine di risolvere definitivamente il «problema apuano». I Liguri sono completamente sorpresi dall’azione dei Romani che sono entrati in campagna prima del consueto, cioè prima che assumessero il comando i nuovi consoli Aulo Postumio Albino e Quinto Fulvio Flacco (consul suffectus) e sono costretti alla resa in numero di 12.000. Consultato il Senato, si prende la decisione di deportare 40.000 capifamiglia con mogli e figli nel lontano Sannio in una zona di ager publicus già appartenuto ai Taurasini vicino a Benevento. I Liguri deportati sono destinati a condividere l’antico pagus Aequanus degli Irpini con la colonia di Benevento. Le rovine del loro centro urbano si trovano in un bosco a tre chilometri da Circello. Qui vivranno per secoli in isolamento etnico col nome di Ligures Baebiani e Corneliani dal nome dei proconsoli che li avevano sconfitti. I consoli dell’anno nel frattempo hanno raggiunto Pisa con le legioni assegnate loro, e proseguono le operazioni militari: Quinto Fulvio Flacco rastrella il territorio degli Apuani e cattura altri 7.000 capifamiglia che sono anch'essi deportati nel Sannio. Aulo Postumio affronta a sua volta i Friniati presso il monte Ballista e Suismontium (Bismantova, in Emilia), costringendoli alla resa. Poi, battuti i Montani ad occidente, prende imbarco su una flotta e costeggia il territorio degli Ingauni e Intemelii. Sopravvivono in vallate isolate poche migliaia di Apuani che, dopo molti anni di pace, nel 155 a.C. si ribellano nuovamente: ma sono definitivamente sconfitti dai legionari romani comandati dal console Marco Claudio Marcello, che ottiene il trionfo ed una dedica di riconoscenza da parte degli abitanti di Luni.
Ma per i poveri liguri non era finita. Circa duecento anni dopo, durante le guerre civili, il Sannio si alleò con Mario contro Silla. Nell’82 a.C., al termine delle guerre sociali, gli Hirpini, con a capo il caudino Gavio Ponzio detto il Telesino, della stessa famiglia dei Pontius, l’eroe delle Forche Caudine, riorganizzò ciò che rimaneva del Sannio e si avviò a Porta Collina per affrontare il nemico. Finì che Silla uccise tutti gli Hirpini, poi li massacrò a colpi di scure, prese i cadaveri dei condottieri più in vista, mozzò loro il capo e li conficcò sui pali che circondavano il campo. “Mai Roma potrà vivere in pace sino a che un solo sannita avrà formato una comunità a sé”, aveva detto. In quell’occasione la sua ferocia fu tale da impietosire gli stessi romani. Probabilmente, dei liguri deportati in quelle zone non rimase traccia, mentre lo storico reggiano don Francesco Milani, nel suo libro su Minozzo (1938) pare convinto della permanenza ligure nelle fasce reggiane di crinale. Egli afferma che i caratteri somatici della popolazione minozzese attuale sono quelli riconosciuti nei Liguri, così come l’attinenza psichica con le note distintive dell’antico popolo: sobrietà, robustezza, dura tenacia al lavoro assiduo, spirito d’intraprendenza che porta a spostarsi nei periodi dell’anno in cui il lavoro in campagna è fermo. Anche il professor Giuseppe Giovanelli, nella sua storia su Cerreto delle Alpi (1991), afferma che la descrizione dei Liguri fatta da Diodoro Siculo si attaglia a misura alle attuali popolazioni cerretane. Insomma: nonostante i massacri e le deportazioni di Roma la grande, pare che l’indomito spirito ligure sia ancora tra noi.